Con gli animali non si può bluffare, quante volte si è sentita ripetere questa verità che esalta la loro capacità di scoprire il reale posizionamento emotivo di chi gli sta difronte, se si ha paura è inutile fare finta di non averla, se l’emozione è fortemente affettiva è inutile fare i duri per sgridare l’animale, si metterebbe a ridere sotto i baffi e si perderebbe ancora di più credibilità. Se questa espressione è vera per il mondo animale mammifero lo è ancora di più per il cane che da millenni vive con noi. Come sappiamo uno dei modi che utilizza per leggere l’altro è il canale chimico che gli permette, tramite i feromoni, di capirne il posizionamento interno. Ma questo significa che gli umani non avendo più l’organo vomero nasale sono destinati ad indovinare chi è l’altro? Il cane come animale sociale si limita alla sua capacità olfattiva per andare d’accordo con il branco o questo dipende da una scelta evolutiva e l’olfatto diventa solo uno degli strumenti per attuarla? Quali sono i meccanismi che gli permettono la convivenza in gruppo senza rancori, astio o desideri di vendetta ma accettare il proprio stato all’interno dell’insieme? La sua “sincerità animale” non è forse proprio la cosa che più ci piace e più ci spaventa in lui? Per rispondere a questi quesiti proviamo ad analizzare tre momenti sociali, l’accoppiamento, la convivenza sociale intraspecifica e la convivenza sociale interpecifica.
Parto analizzando non l’attuale situazione dove l’animale non decide più con chi accoppiarsi ma partendo dalla verità etologica di questo aspetto relazionale. Per una specie sociale secondo un principio darwiniano la selezione dei soggetti migliori per riprodurre continuità nella biodiversità passa attraverso due vie, una genetica e una comportamentale. La prima definisce la tempra, la sicurezza, la tendenza all’equilibrio in tutti i suoi aspetti ed altro, la seconda determina la capacità di partecipare ad un gruppo potendo assumere, senza ansie o difficoltà, la sua guida nell’interesse di tutti. La parte genetica è propria del soggetto quella relazionale/sociale deve essere confermata e riconosciuta dagli altri. Quando i comportamenti corrispondono ai canoni di una possibile leadership la verifica finale viene fatta attraverso la lettura chimica. Da qui l’accettazione non passiva ma convinta degli altri partecipanti del branco nel riconoscere il diritto di monta solo a quei due soggetti.
Una serena, efficiente ed efficace convivenza sociale ha necessità di dinamiche relazionali prive di quelle soprastrutture che ne potrebbero incrinare la compattezza. Mi riferisco al rancore, all’invidia, alla non accettazione del proprio ruolo e rango, all’illusione di credersi diversi da quello che realmente si è, in definitiva a tutte quelle situazioni che sono prive della “sincerità animale”. Bekoff definisce questa caratteristica degli animali sociali come Moralità, cioè un insieme di regole non scritte ma che è necessario rispettare per essere accettati dal gruppo, pena l’esclusione definitiva. Risulta evidente come per il cane un’elaborazione relazionale priva di sincerità e spontaneità non sia possibile, non è prevista dalla sua scelta evolutiva e, se volete, da una semplicità cognitiva che lo difende dalle negatività sociali. Che sia veramente quello che dimostra o creda di essere la sua risposta è sempre e comunque sincera.
La sua convinzione delle dinamiche sociali e del significato di relazione tende a riproporle anche nella realtà interspecifica, cioè anche nella convivenza con una specie diversa propone le sue convinzioni filogenetiche e si aspetta delle risposte coerenti. I millenni passati attraverso l’ammansimento, la domesticazione e la relazione sociale quotidiana lo hanno portato a mediare le sue certezze ma solo nella sfera dell’espressione comportamentale non certo nel significato di sincerità e chiarezza espressiva. Mentre loro si sono dovuti adeguare a questo tipo di convivenza mediando la loro natura espressiva e “linguistica” noi, dall’alto della nostra superiorità non siamo riusciti ad adeguarci, seguitiamo a parlare con loro invece di comunicare, pensiamo che basti l’affetto per avere obbedienza e amore e quando scopriamo che le nostre aspettative non vengono soddisfatte lo colpevolizziamo di ingratitudine o di cattiveria. In realtà dovremmo fare un’azione di umiltà ed imparare da loro ad essere sinceri in modo comprensibile e “leggibile”.
Con questo non voglio dire che dobbiamo emularli, sarebbe impossibile viste le diversità di specie, ma che se facessimo nostro il dato finale “sincerità relazionale” e lo trasformassimo in una voce etica da seguire con tutto il mondo vivente scopriremmo di vivere meglio. Certo questo significherebbe un forte lavoro di introspezione, di cambiamento culturale che rinuncia all’inganno, all’invidia, al rancore, contrariamente si dovrebbe riacquistare il valore della sincerità ed essere pronti a pagarne i costi. Abbandonare una filosofia e una cultura che ci spinge a gestire le relazioni verso un principio di vantaggio soggettivo favorendo così la capacità ad ingannare. Se comprendessimo che per gli animali sociali come noi la cartina d tornasole è rappresentata dalla spontaneità in cui viene espressa la sincerità relazionale avremmo fatto un passo avanti alla partecipazione nella biodiversità come elemento tra gli elementi e non come elemento diverso.